PUCCINI : a discussion on  Che gelida manina by Luciano di Cave (Italian only)

 DO = C    RE = D    MI = E    FA = F    SOL = G      LA = A     SI = B  

 È questa una delle più popolari arie d’opera della lirica italiana, vorrei quasi aggiungere della lirica universale. Anche i profani sono a conoscenza di questa romanza tanto che il detto “Che gelida manina” si applica spesso durante l’inverno quando un innamorato accarezza la mano della sua bella.  Qual è il tenore che non ha mai cantato, almeno una volta, “Che gelida manina”?  Credo che a questa domanda la risposta sarebbe unanime: Nessuno. E sì che, pur essendo una melodia lineare che scorre fluida come la limpida acqua di un torrente, non è per niente facile… ma quel “DO”…

 Questa romanza, all’apparenza lineare e di facile lettura, in realtà nasconde parecchie trappole:innanzi tutto l’insistenza del fraseggio sulle note di passaggio, croce più  che delizia di tutti i tenori o apsiranti tali,  poi la prima nota acuta, si bemolle (Chi son? Chi sono….) che fa già capire se il tenore avrà vita facile quando raggiungerà il do. La frase “Talor dal mio forziere” che sullo spartito è voluta dall’autore come una arcata di suono completamente legata è spesso eseguita a tutta voce e pochi si preoccupano delle intenzioni del compositore che ha scritto “con molta espressione” e “sostenuto largamente”. Infine il do acuto, a cui molti arrivano con l’aiuto di “una dolce speranza” e che, molto spesso, diventa un si naturale per l’abbassamento della romanza di un semitono. Le frasi finali dovrebbero seguire alla lettera le indicazioni dell’autore “ dolcissimo”, “con anima, stentando”, ma non sono molti ad attenersi alle annotazioni scritte.

Il trasporto della romanza a mezzo tono più basso non è poi una pecca così enorme. È vero, lo spartito dovrebbe essere sempre eseguito così come è stato concepito dall’autore, ma se un cantante si trova più a suo agio evitando il “do” sopracuto, per evitare ansie a se stesso e al pubblico,  concediamoglielo. L’importante sarebbe seguire tutte le annotazioni indicate dal compositore,il che raramente avviene. Vedremo, nel corso di questa rassegna se in ogni cantante  troveremo, uniti, tutti questi requisiti.

  La Bohème è stata una delle prime opere ad essere incisa completa, dalla “GRAMMOFONO”, non ancora “La Voce del Padrone”, ma già presente con la sua famosa etichetta con il cane. E questa incisione, che risale più o meno al 1916, presenta una curiosa particolarità: la parte di Rodolfo è sostenuta da Remo Andreini (Gemma Bosini è Mimì) il quale canta tutte le sue note ma viene privato proprio dell’aria principale. Infatti “Che gelida manina” è affidata al tenore LuigiBolis, presente soltanto su quella facciata. In base a quali criteri artistici queste scelte venivano effettuate (ne sa qualche cosa anche il Rigoletto di Danise-Badini), rimane un mistero.

Anche per le incisioni elettriche la Bohème, dopo il Rigoletto con la Pagliughi, fu tra le prime opere a comparire nei cataloghi VDP (Torri-Giorgini). Dopo d’allora le incisioni complete di Bohème non si contano più, ma, naturalmente, ancor più numerose, furono quelle che riguardavano la sola aria del tenore. Come ho già stabilito per l’aria della Traviata, separerò le incisioni meccaniche da quelle elettriche, anche perché di questa romanza esistono centinaia di registrazioni ed è giocoforza effettuare una cernita.

Un altro avvertimento: non sempre le incisioni meccaniche rispettavano l’esatta velocità dei 78 giri,(e. qualche volta, neppure quelle elettriche), dato che le apparecchiature del tempo non  permettevano di raggiungere l’optimum, e questo,unito al fatto che molti tenori abbassavano la romanza (di solito di un semitono), rende a volte difficile un esame approfondito del brano. Per questo non starò ogni volta a riportare la tonalità dei dischi. Lascio ad ognuno di voi, se vorrete ascoltare qualcuno di questi interpreti, di giudicare  se abbiano cantato la romanza nella tonalità originale o l’abbiano abbassata. Un’eccezione va fatta per Fernando De Lucia, il quale, come è noto, aveva fatto un’abitudine ai trasporti di tonalità. Per questo lo chiamavano ironicamente “Gondrand” (nota ditta di trasporti). Alla fine degli anni  70 venne stampata negli Stati Uniti una raccolta di 5 dischi microsolco che racchiudevano la maggior parte delle incisioni di questa aria. Un’impresa non da poco, voluta da Edward J. Smith, il pioniere delle incisioni “live” introvabili o sconosciute. Questa raccolta ha un suo valore, dato che ci presenta questa romanza in cento interpretazioni e, per chi voglia togliersi questo desiderio, una miniera di raffronti e differenza di stili. Voglio riportare le precise parole che Edward Smith scrisse nel foglio di presentazione dei dischi:

(Mi si è chiesto di recente quale aria d’opera io  sceglierei se fosse l’ultima che  mi fosse dato di ascoltare. E così ho scelto “Che gelida manina”  con Gigli che ascoltai  nel 1927 e con Martinelli stabilite nella mia memoria come qualcosa di eccezionale. Alcuni amici interessati in queste scelte

nominarono altre arie, ma la maggior parte scelse quest’aria della Bohème. Così decisi di

andare in fondo e trovai quasi 500 incisioni effettuate dagli inizi del 1900. 500 versioni sembravano un po’ troppe da realizzare su una sia pur soddisfacente raccolta e, alla fine ho optato per 100  (esattamente 101 – nota dello scrivente) edizioni dell’aria cantata da tenori che la incisero fra il 1900 e il 1980. L’aria è cantata in Italiano, Francese, Tedesco, Inglese, Russo e Ceco ed  è

disponibile in un set di 6 dischi che possono anche essere acquistati singolarmente…..)

 Debbo riconoscere che la raccolta di Edward J. Smith, Eddie, come io e altri suoi amici lo chiamavamo, mi è stata di grande aiuto.  Vedrò di seguire i suoi suggerimenti, ma per portare alla vostra conoscenza  se non tutti, almeno una parte dei  101 brani sarà necessario molto tempo e, soprattutto molta perseveranza.

Voglio precisare che molte delle prime incisioni del secolo non sono complete, dato che, per molti anni, i dischi a 78 giri venivano stampati nel formato dei 25 cm. (Ten inch). Anzi, addirittura con i primissimi (Berliner, G&T, etc.) nel formato 20 cm. (7 inch).  Poi con l’immissione sempre più frequente del formato a 30 cm. (12 inch), si potè, finalmente!, ascoltare l’aria nella sua interezza.

Naturalmente io preciserò, ogni volta, se l’esecuzione è  più o meno completa. Molto spesso, nei dischi da 25 cm. l’etichetta riportava “Che gelida manina”, in realtà, spesso cominciava da “Talor dal mio forziere”, in altri casi veniva tagliata senza pietà per comprimerla nel poco spazio a disposizione.   Eddie Smith aveva incluso nella sua scelta anche incisioni che non rientravano nella sfera dei 78 giri, per cui molti degli ultimi tenori da lui elencati  saranno da me esclusi. (Del Monaco, Corelli, Kraus, G.Raimondi, Wunderlich e pochi altri). Ma, se ci addentrassimo nell’era del microsolco prima e poi del CD, allora, forse, sarebbe necessaria un’enciclopedia.

La raccolta di Smith ha inizio nientedimeno che con Enrico Caruso: e ad un semplice ascoltatore come me dare un parere sull’incisione di Caruso fa tremare le vene e i polsi. Il disco di Caruso, inciso nel 1906 (VICTOR 88002) rimase nel catalogo italiano della Voce del Padrone fino all’avvento del microsolco, ma era stato incluso nel “Catalogo storico”,  sezione in cui figuravano incisioni di indubbia importanza storica ma carenti dal punto di vista tecnico. Per la verità l’incisione  di “Che gelida manina” non differisce molto da quelle degli altri titoli di Caruso inclusi nel catalogo normale, rimane comunque una bella testimonianza di un personaggio che Caruso interpretò numerose volte sul palcoscenico. (Inoltre incise anche altri brani dall’opera). La sua disinvoltura nel canto gli permette di interpretare il personaggio, con un facile sibemolle nella prima parte e uno squillante do nel finale. E tutto questo senza rinunciare a una chiara pronuncia e all’accentuazione, perfetta, di alcune parole  (due ladri…. gli occhi belli).

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La registrazione di Alessandro Bonci, più o meno coeva di quella di Caruso, si avvale del solo pianoforte. Nell’esecuzione Bonci mi da l’impressione di pensare più alla voce che all’interpretazione, anche se non mancano episodi di morbidezza e sfumature, gli acuti sono sicuri ma non brillantissimi.  Per la prima volta notiamo che il do è affrontato con un piccolo aiuto: invece di pronunciare “Poiché v’ha preso stanza….la speranza”, Bonci, come altri tenori che incontreremo in seguito, dice “Poiché v’ha preso stanza…. La dolce speranza” .  Forse una preparazione in più per l’acuto. Le frasi di chiusura sono cantate molto bene.

 (In realtà la scrittura “ la dolce speranza” è contemplata nello spartito, quale alternativa per il cantante che vuole evitare il do e molti tenori hanno fuso le due opzioni e ne hanno fatto una propria scelta Inutile dire che, in teatro, nessun tenore si azzarda a eliminare l’acuto della speranza, che, in realtà, ha un suo ben chiaro significato psicologico).

 Giovanni Zenatello dovette parte della sua fama all’interpretazione di Otello (mi piacciono molto di quest’opera i suoi dischi elettrici, anche se registrati verso la fine della sua carriera) e non lo avrei certo designato come eccelso interprete di Rodolfo. Eppure ha registrato molti brani dalla Bohème, segno indubbio che quest’opera faceva parte regolare del suo repertorio. Incise due volte “Che gelida manina”, una per la Fonotipia e una per la Odeon Brasiliana. Sul disco di Smith figura l’incisione della Fonotipia  (74105) e l’esecuzione non è brillantissima. I passaggi nella tessitura acuta sembrano dargli qualche dificoltà, ma le note acute, anche se non eccezionali, sono affrontate con facilità. Che cosa dire di Fernando De Lucia? Affidò questa incisione all’etichetta PHONOTYPE, (M 2234) quando il suo momento d’oro era passato da un pezzo. La voce, tuttavia, come si evince anche dalle altre innumerevoli incisioni effettuate per la stessa casa, si manteneva sana e squillante. Non era cambiata nemmeno la vecchia abitudine di infiorettare i brani che cantava con la più assoluta disinvoltura e disinteresse per lo stile che avrebbe dovuto rappresentare. Inutile dire che, in un brano come questo, ogni cambiamento e variazione diventa un arbitrio. Meglio non indagare sulla tonalità voluta dal cantante che non si fa mancare nemmeno una risata alla frase “Chi son?  Chi sono? Sono un poeta…” assolutamente fuori posto. Nell’insieme una incisione che può essere accettata soltanto da un appassionato fan di De Lucia ma che non ha niente a che vedere con una fedele esecuzione del brano.

 Le incisioni di Giuseppe Anselmi, Aristodemo Giorgini ed Elvino Ventura non brillano per meriti particolari. Quella di Anselmi, (Fonotipia 74032     ) risulta, come molte altre di Anselmi, piuttosto trascurata, pur mettendo in evidenza quelli che erano i pregi del cantante: morbidezza, sfumature e, qualità o difetto, giudicate voi, una certa irruenza. Giorgini (Pathé) e Ventura (Fonotipia) iniziano a cantare quasi a metà romanza e se Giorgini presenta una certa partecipazione, Ventura, pur eseguendo una esecuzione dignitosa non offre spunti particolari. Anche Amedeo Bassi (Pathè), inizia da “In povertà mia lieta”,  e, pur essendo un tenore abituato ad opere più drammatiche, rivela ottime intenzioni e una voce forte, ma duttile. La migliore incisione di questo gruppo, sia per la completezza del brano che per nobiltà di intenti, è rappresentata da Florencio Constantino (Columbia D 17522), il quale presenta, nelle giuste dosi, dolcezza ed energia. Riguardo a Giorgini mi riserbo di parlarne quando affronteremo le incisioni elettriche, dato che egli fu chiamato ad interpretare Rodolfo nella prima incisione elettrica dell’opera.

Una esecuzione da tenere presente è quella del tenore Carlo Albani, che ho ascoltato direttamente da un disco a 78 giri: ODEON marrone 110157-58. L’incisione su due facciate permette al cantante non solo di affrontare gli acuti con sicurezza, ma anche di interpretare il brano con una sicura partecipazione. Per quanto la “Brown Odeon” fosse considerata una sottomarca della Fonotipia c’è da considerare che l’incisione venne effettuata con cura e attenzione

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 Anche Slezak, notoriamente tenore di forza (ma anche eccellente interprete di Lieder), si cimentò con la Bohème, tanto da inciderne parecchi brani (famosi i duetti con Selma Kurz). Affidò quest’aria al disco più di una volta ed io ho scelto l’ ODEON 80904. Si nota subito la bella voce di Slezak che non si contenta di sfoggiare i suoi poderosi acuti, ma si preoccupa anche di interpretare un personaggio che sembrerebbe tanto lontano dal repertorio eroico cui era più abituato. L’esecuzione è in tedesco e risale al 1912.

Abbiamo poi Edoardo Garbin, (Columbia D 9321),  Edoardo Gherlinzoni (Columbia D 17506)

Wilhelm Herold e Giovanni Cesarani. (Probabilmente G&T nero). Nessuno di questi brilla per meriti particolari. Garbin, che è il più famoso dei quattro, presenta una voce molto chiara, una certa difficoltà nell’affrontare il do (forse un si naturale?) e presenta molte intenzioni che però non sempre riescono a realizzarsi. Gherlinzoni si preoccupa più della voce che dell’interpretazione, Herold, con un “do” poco sostenuto, offre una discreta immagine di Rodolfo, Cesarani appare in una versione duramente tagliata e, tra i pochi  nella schiera dei tenori, si guarda bene dall’affrontare il do. I suoi dischi elencati da Bauer non comprendono “Che gelida manina” e risalgono al 1900 e 1901. Anche questo dovrebbe appartenere a quell’epoca.

Hermann Jadlowker affronta la romanza in un buon italiano. Riesce a spiegare molto bene la voce e si conferma eccellente artista nell’interpretare un ruolo così diverso dai suoi ruoli più belcantistici. Nell’insieme una bella esecuzione.  (Disco VICTOR 76023). Per la cronaca Jadlowker ebbe al suo attivo molte incisioni dalla Bohème, in tedesco, per la ODEON. (Anche, sempre in tedesco, una prima edizione di “Che gelida manina”)

Léon Campagnola esegue l’aria in francese e anche se il do, pur sostenuto, non è di prima qualità, tutto il brano è eseguito molto bene da un tenore che si preoccupa anche del testo e del significato delle parole.  (Disque Gramophone 032198).

Dimitri Smirnov è presentato da Smith in una edizione in lingua russa e questa interpretazione, per la verità, non mi ha soddisfatto. Infinitamente migliore l‘edizione in lingua italiana che ho trovato sull’LP CLUB-99/31. Purtroppo soltanto di recente le case discografiche hanno preso l’abitudine di corredare le incisioni con i dettagli che riguardano il disco originale, l’etichetta, il numero, etc.

40 o 50 anni fa questo non avveniva, per cui ignoro il numero del disco di Smirnov, dato che il CL.99 non spende a proposito nemmeno una parola. Potrebbe essere HMV 052409.  Comunque questa è un’incisione da tener presente, in cui Smirnov si concede efficaci sfumature, disinvoltura nella tessitura e un do ben sostenuto.

Chi non conosce l’arte di Tito Schipa?  Pochi forse l’hanno ascoltato nelle vesti di Rodolfo, quando, all’inizio della sua carriera, la Bohème figurava ancora nel suo repertorio. E ancora una volta Schipa ci stupisce, con la sua leggerezza, la morbidezza delle frasi, la partecipazione al testo. Presumo che l’aria sia abbassata di mezzo tono, il che non pregiudica affatto la bontà dell’esecuzione, e l’acuto della “speranza”, anche se è un si naturale invece del do è affrontato con giovanile sicurezza.      (GRAMMOFONO 2-052150). Con l’avvento dell’incisione elettrica Schipa incise, insieme a Lucrezia Bori, la scena della morte di Mimì. Un disco storico.

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 Un altro nome di tutto rispetto, quello di John McCormack, che della Bohème incise anche altri brani. Qui McCormack canta bene come sempre, tuttavia non reputo questo disco uno dei suoi migliori. La tessitura sembra procurargli qualche difficoltà e il do finale risulta piuttosto forzato. (Victor 88218) Una esecuzione interessante è quella di Hipolito Lazaro, un tenore che, di solito, siamo abituati ad ascoltare in un repertorio molto più “forte”. Qui, pur dimostrando qualche durezza, Lazaro tiene in pugno la tessitura, arrivando fino a sfumare il “si bemolle” di “Chi son? Che faccio….”  E ad attaccare con dolcezza “Talor dal mio forziere”. Inutile dire che il do è eccellente. Columbia 48741)

 Charles Hackett svolse in Italia molta della sua attività e canta l’aria nella lingua originale che egli pronuncia in maniera caratteristica. Si trova a suo agio in’opera che doveva essergli congeniale e affronta con sicurezza tessitura e note acute.  (Columbia 49645)                 

Evan Williams  canta molto bene (in inglese) e si muove con molta disinvoltura fra il si bemolle e Il do.  (VICTOR 74129)

 Mario Chamlee fu un tenore di buona fama, in specie negli Stati Uniti. La sua è una voce brunita che forse, in quest’aria, avrebbe necessità di più vari coloriti. Il do è buono. (BRUNSWICK 50003)

 Johannes Sembach, un tenore dedito più che altro al repertorio tedesco, non si trova a suo completo agio in questa romanza, tanto, alla fine da eliminare il do acuto. (Probabilmente GRAMMOPHON)

 Dan Beddoe, conosciuto principalmente come cantante di concerti e di Oratori, canta molto bene destreggiandosi con abilità in una tessitura per niente facile e arrivando facilmente al do sopracuto. Una interpretazione da tener presente, a dimostrazione dell’intelligenza di un esperto cantante. Non ho potuto rintracciare la fonte del disco, forse un VICTOR.

 Abbiamo una lista di cantanti che nominiamo per seguire la lista di Eddie Smith: sul terzo disco Le incisioni meccaniche sono mescolate a quelle elettriche, per cui rimanderemo alla seconda puntata alcuni tenori come Cortis, Pattiera, Minghetti, etc. Sul libro “Collector’s guide to American recordings” di Julian Morton Moses l’incisione di questo brano cantato da Orville Harrold è considerata la sua migliore, fra i suoi tanti dischi Columbia e Victor che figurano nei cataloghi (Victor 74624). In effetti si tratta di una buona esecuzione, che dovrebbe risalire ai primi anni 20.

 Sullo stesso libro Moses paragona la voce di George Hamlin a quella dei migliori tenori italiani, per la verità, anche se l’esecuzione è  decorosa, non condivido il suo entusiasmo. (VICTOR 74185)

L’interpretazione di Otto Marak, sebbene in lingua “ceca” si fa notare per la bella voce e una certa morbidezza, probabilmente con l’incisione elettrica  (a cui arrivò) avrebbe reso al meglio le sue qualità. (Disco GRAMMOPHON 042337).

 Arriviamo a Richard Tauber.    È un giovane Tauber quello che affronta con baldanza un brano che richiede sicurezza nel registro acuto. Tauber è un artista nato e spiega con disinvoltura il suo bel fraseggio (in tedesco). Per il do (forse un si naturale) ricorre a qualche compromesso, ma non importa. Tauber si ascolta sempre volentieri. (ODEON LXX 80942).

 È noto che le incisioni della “VOCALION” non rappresentavano i cantanti nella loro forma migliore, Giulio Crimi tuttavia, che non deve certo a questi dischi la fama di grande tenore, riesce a farsi apprezzare per la sua intensa partecipazione.  (VOC. 52045)

 Tom Burke, che se la cava in modo eccellente nella pronuncia italiana, spiega bene la sua voce e, dopo aver dimostrato una buona emissione, attacca il do acuto con un certo impeto.  (COLUMBIA 7347)

 Eddie Smith ha presentato Alfred Piccaver in una incisione acustica, ma io lo rimando alla puntata delle incisioni elettriche. Preferisco presentare il cantante nella sua forma migliore.

Karl Erb, cantante preminentemente mozartiano ed eccellente interprete di Lieder affidò al disco questa celebre aria. Si trova a suo agio nella parte cantabile, un po’ meno sulla tessitura acuta. (Come dimostra un do piuttosto precario).

 L’inclusione di Giorgio Malesci in questo elenco può essere considerato un omaggio ai pionieri del disco. L’incisione risale al 1902  (black G&T  52351), disco da 25 cm. (10”),  (Inizia, ed è così titolato sull’etichetta, da “Aspetti, signorina”). Considerati questi fattori l’esecuzione non è male, salvo presentare un po’ di confusione prima di “Poiché v’ha preso stanza”. Forse non una perfetta sintonia fra l’accompagnatore al piano e il cantante.

 Con il disco di David Devries si nota una bella voce (L’aria, in francese, inizia da “Chi son?, sono un poeta : Eh bien voilà, je suis poète”), forse più leggera che lirica, ma la linea di canto è buona e potrebbe rendere di più se non fosse riportata su un’incisione PATHÈ  del 1907 (4473) che non rappresenta il massimo della tecnica d’incisione. Il do è appena sfiorato.

 Compare nella lista di Smith Giuseppe Taccani con un disco COLUMBIA  da 25 cm. (DQ 717), ragione per cui l’aria è tagliata (per 2 volte). L’esecuzione è buona, la voce è bella, ma risulta mortificata da queste interruzioni.

 Guido Ciccolini incise dei buoni dischi per la GRAMMOFONO presentando sempre una bella voce. La romanza mi sembra abbassata, per cui alcune note centrali risultano un po’ deboli, ma il cantante cerca di dare alle parole le sfumature adatte. (Disco GRAMMOFONO 2-052082)

 Kiprian Piotrovsky è un nome per me sconosciuto e ignoro per quale etichetta eseguì questa romanza. La voce non è particolarmente affascinante e non mi pare si trovi troppo a suo agio nella tessitura del brano (che mi sembra abbassato di mezzo tono).

Prima di terminare con Dino Borgioli voglio nominare altri tre tenori che non sono inclusi nella lista di Smith: il primo è Luigi Bolis,  (S 5024)  il tenore che venne scelto per intepretare “Che gelida manina” sostituendo il titolare dell’opera completa “GRAMMOFONO”, Remo Andreini. Bolis ha un timbro più robusto del suo collega e, per la verità, canta il brano con correttezza e, direi, anche con una certa convinzione

 Abbiamo poi due tenori della Columbia, tutti e due impegnati su dischi da 25 cm., quindi esecutori incompleti di una romanza che, tagliata in più punti, non offre molti spunti a una buona interpretazione. Si tratta, comunque di due cantanti sperimentati, in possesso di buone voci e, per questo, chiamate spesso a registrare dischi, Angelo Bendinelli (D 9382) e Gino Martinez Patti (D 9215).   

L’elenco delle incisioni elettriche compilato da Smith inizia con “Che gelida manina” cantato da Giovanni Martinelli. A questo proposito mi sia lecito fare una breve digressione: ho preso la lista di Smith come guida attraverso le decine e decine di incisioni di quest’aria che si sono avvicendate nel tempo e le ho seguite anche per l’ascolto sui suoi dischi LP quando non avevo a disposizione altro materiale. Debbo premettere che, per quanto mi è stato possibile, sono sempre ricorso ai dischi originali, 78 giri se possibile, o riproduzioni quanto più possibile perfette. In questi ultimi anni la tecnica di riproduzione ha fatto passi da gigante e molte etichette, Naxos, Marston, Romophone, Preiser (non posso nominarle tutte) hanno offerto ricostruzioni tecniche di alta qualità. Questo breve ragionamento ci riporta a Martinelli: infatti, l’ascolto sul disco di Smith della sua esecuzione, per quanto ben riprodotto, non mi aveva del tutto soddisfatto: per questo sono andato a prendere dallo scaffale il DB 979 VDP elettrico  (in origine incisione VICTOR), nonché il DB 335 VDP acustico (in origine incisione VICTOR), li ho ascoltati con apparecchi idonei e ne ho tratto differenti conclusioni.

L’incisione acustica risale al 1913, precede quindi di ben 13 anni quella elettrica (1926), e… si sente: debbo dire che ho dato la preferenza alla prima: in ambedue i casi Martinelli ci porge una esecuzione che definirei “a gola spiegata”, forse con poca tendenza alla dolcezza o alla tenerezza, ma l’interpretazione è efficace e l’affrontare le note acute non è per lui un problema. Inoltre, a “talor dal mio forziere”, pur rinunciando al legato, ci sbalordisce con una tenuta di fiato e un’ampiezza della frase che è davvero ammirevole. Il do è bellissimo, ma, malgrado il vantaggio dell’incisione elettrica, risulta più sfogato nell’edizione del ‘13. Nomino Martinelli in questa sede di incisioni meccaniche perché la versione acustica dimostra una voce più fresca, più splendente e, oserei dire, più morbida. Martinelli incise quest’aria anche per la Edison ma la tecnica di registrazione non è eccezionale.

 Ed eccoci ora a Dino Borgioli, con quella che potrebbe essere la migliore interpretazione di quante ne ho finora elencate. Uso il condizionale perché il brano venne registrato su disco COLUMBIA   da 25 cm. (D 9411)  e quindi crudelmente tagliato. Posso chiamarla un’occasione perduta perché Borgioli è forse l’unico rappresentante di questa lista (almeno fra i nomi finora elencati) che sia in grado di fornire al brano la morbidezza e, soprattutto, la poesia, che l’aria richiede. Rodolfo è un poeta e, in questo brano di presentazione si esprime con parole che dovrebbero rendere la natura della sua indole. Ma molti tenori dimenticano questo particolare e si preoccupano soltanto di esibire la loro forza muscolare e un do più spettacolare possibile. E in quanto al do Borgioli non è secondo a nessuno. La stranezza dimostrata dalla COLUMBIA consiste nel fatto che Borgioli registrò elettricamente  molti brani dalla Bohème (i duetti e il quartetto), ma non gli fu concesso di incidere “Che gelida manina” su un 30 cm. elettrico. Misteri delle case discografiche. Per essere sicuro di questa mia preferenza sono andato ad ascoltare questo brano cantato da Borgioli in un concerto per la radio inglese nel 1941, pubblicato, non desta meraviglia, da Eddie Smith. Una vera rarità. Ebbene, tutto quello che ho scritto qui sopra viene confermato per una esecuzione davvero esemplare. Frasi sussurrate, un tono suadente nelle frasi finali, un tempo preso senza la costrizione della facciata a 78 giri (durata 5,19 minuti). Speriamo che qualche casa discografica noti questa serie di concerti di Dino Borgioli (uno insieme a Eva Turner) e ce li ripresenti, con una adeguata ricostruzione tecnica, su un moderno CD.

 La rassegna delle incisioni acustiche di “Che gelida manina” termina qui. Mi guardo bene dal considerarla completa, dato che, sicuramente, altre incisioni della romanza esistono nei ricchi archivi storici delle Case discografiche. Le esecuzioni, come avete constatato, sono molte, ma  sono molto poche, a mio avviso, quelle davvero meritevoli di speciale menzione. Per la maggior parte si tratta di buone esecuzioni, di cantanti che conoscono il loro mestiere, ma sono ben pochi quelli che davvero “sanno” interpretare questa romanza. La maggior parte si preoccupa della voce con l’intento di arrivare preparati al “do” finale e con lo scopo di sbalordire con un acuto che sembra scritto proprio per sfidare i suoi esecutori.

 Se dovessi scegliere alcunie versioni di quest’aria darei la mia preferenza prima di tutto a Dino Borgioli, che riesce a farsi valere nonostante i tagli apportati alla romanza, e poi Caruso (mi sembra scontato), Tito Schipa e, anche se non incondizionatamente,  Jadlowker, Lazaro, Dan Beddoe e Campagnola. La schiera dei cantanti che hanno inciso 78 giri con l’incisione elettrica è ancora più nutrita e altri mostri sacri si avvicenderanno su questo palcoscenico virtuale, per essere ricordati e sottoposti ad un esame (non chiamatelo giudizio) accurato. A presto,

 

Luciano Di Cave

Per l’amicizia e l’affetto che mi hanno legato a lui e per le iniziative da lui presein campo discografico desidero dedicare questo  scritto alla memoria di Edward J. Smith